La via dell’autonomia alimentare

“Inceppandosi gli scambi, la pandemia di Covid.19 potrebbe provocare una grave penuria alimentare mondiale. E’ tempo di porsi il problema di una nuova ricollocazione agro ecologica dell’alimentazione. Dopo il Covid-19, lo spettro della penuria alimentare incombe sulle popolazioni più vulnerabili. Il numero delle persone in crisi alimentare e nutrizionale nell’Africa Ovest potrebbe così passare da 17 a 50 milioni fra giugno e agosto 2020, stima la Comunità economica degli Stati dell’Africa Ovest (Cedeao). “Malgrado gli sforzi degli Stati, le popolazioni sono oggi messe a confronto a delle difficoltà di accesso ai mercati alimentari, a un inizio di aumento dei prezzi e a una diminuzione della disponibilità di certe derrate di base, conseguenze delle misure restrittive instaurate, della chiusura delle frontiere e dell’insicurezza in certe zone”, ha precisato l’ONG Oxfam a metà aprile. Segno della gravità della situazione, tre organizzazioni dell’ONU – FAO, OMS e OMC – hanno pubblicato un comunicato comune: Noi dobbiamo assicurarci che la nostra risposta di fronte alla pandemia di Covid-19 non crei, in maniera involontaria, delle penurie ingiustificate di prodotti essenziali e inasprisca la fame e la malnutrizione”, scrivevano i direttori delle agenzie. Sotto tiro:  il timore di una rottura delle catene di approvvigionamento. Perché la crisi sanitaria ha non solo disorganizzato il trasporto delle merci – imbarcazioni, camion circolano più lentamente – ma ha anche spinto numerosi paesi produttori a costituire degli stock ….. e quindi a diminuire drasticamente le loro esportazioni. “

“Tutte le condizioni sembrano riunite per avere delle tensioni sui prezzi dei prodotti di base, in particolare nei paesi del Sud importatori netti, stima Aurélie Trouvé, economista a AgroParisTech. I paesi non hanno stock alimentari che permettano di aspettare e di assorbire gli choc.”  Le nostre agricolture – e quindi il contenuto dei nostri piatti – dipendono da mercati mondializzati volatili e a flussi sospesi, dove si vende e si compera una gran parte della produzione mondiale. Allo scopo di dimostrare la complessità del nostro sistema alimentare industrializzato, l’associazione Les Greniers d’abondance ha illustrato in dettaglio le varie fasi di produzione di un banale jogurt alla fragola: Il latte proviene da una fattoria  di 150 Prim’Holstein.  Le mucche sono nutrite con erba e mais coltivati nell’azienda agricola e panelli di soia importati dal Brasile. Il latte raccolto è trasportato in camion-cisterne isotermici al caseificio, dove è pastorizzato, scremato ed eventualmente disidratato (….)  Le fragole sono coltivate in serre nel sud della Spagna e trasportate a mezzo di camion frigoriferi . Lo zucchero proviene dalla raffinazione delle barbabietole da zucchero in una raffineria della Beauce (….) Gli aromi sono sintetizzati in una unità di chimica fine partendo da molecole organiche fossili o derivate dalla biomassa. Inoltre gli addensanti sono estratti in modo industriale da prodotti vegetali: una leguminosa coltivata in India per la gomma agar e alghe rosse coltivate nelle Filippine per i carragenini, Viene poi la fabbrica di trasformazione nella quale molteplici macchine permettono di assemblare e di mescolare gli ingredienti, di confezionare il prodotto finito nei vasetti di plastica provenienti dalla petrochimica, e di imballare il tutto in cartoni plastificati colorati con coloranti di sintesi.”

“Viviamo in una illusione di sicurezza alimentare, perché essa esiste solo fino a quanto i flussi sono mantenuti”

“Abbiamo sviluppato un’agricoltura troppo specializzata, in nome della teoria del libero scambio e dei vantaggi comparativi, ricorda l’agronomo Marc Dufumier. Secondo questa teoria, bisogna fare in casa proprio quello per il quale si hanno più vantaggi, e acquistare il resto altrove. Ma la crisi sanitaria ci rivela quanto è pericoloso dipendere dall’estero per i prodotti di prima necessità. E’ vero per le mascherine degli ospedali, è vero anche per i prodotti alimentari di base.” E’ così che, dall’inizio della pandemia, abbiamo visto replicare gli appelli a una ricollocazione dell’alimentazione. Segno di questo plebiscito, i circuiti brevi sono diventati “un vero rifugio per i consumatori”, notava la Fédération Nationale de l’Agriculture Biologique in un comunicato”Sarà sicuramente la più grande lezione di questa crisi, aggiunge la Fèdération, i territori che hanno i circuiti di prossimità più sviluppati sono anche i più autonomi e agili per assicurare la sicurezza alimentare della loro popolazione.” Una volta non è abitudine, i difensori della vendita diretta non sono stati i soli a sostenere una nuova territorialità  dell’alimentazione. Fra i primi a reagire, il presidente Macron ha ammesso, l’ultimo 12 marzo, che “delegare la nostra agricoltura era una pazzia”. E nei fatti ? “Per il momento, la crisi non rivela una fragilità particolare del nostro sistema alimentare, constata Nicolas Bricas, agro economista al Centre de Cooperation Internationale en recherche agronomique pour le developpement (Cirad). Non c’è un’impennata dei prezzi, né reparti vuoti nei negozi. La fragilità è altrove.” Stessa campana da parte delle camere d’agricoltura che, in un’analisi pubblicata a fine marzo, hanno esaminato il problema: “Una prima situazione dei luoghi della nostra capacità di autonomia alimentare su scala nazionale fornisce numerosi elementi rassicuranti”, spiegano i loro analisti. Grano, olio, patate, zucchero, carne bovina …. In queste filiere, “le nostre produzioni nazionali coprono quasi l’insieme del nostro consumo indigeno”, precisano. “Esportiamo di più di quello che importiamo”, insiste anche Nicolas Bricas. Tuttavia, nota Stéphane Linou, apostolo del “locavorismo” (1) e autore di un libro auto pubblicato intitolato Résilience alimentaire et securité nationale, “si vive in un’illusione di sicurezza alimentare, perché essa esiste finchè i flussi sono mantenuti”. E cioè, che i 30.000 camion che percorrono ogni giorno la Francia continuino il trasporto delle derrate. Perché se noi produciamo enormemente, noi importiamo una parte sempre più importante della nostra alimentazione. In un rapporto pubblicato nel 2019, il senatore Les Républicains Laurent Duplomb dava l’allarme: “Le importazioni rappresentano circa la metà del nostro consumo di frutta e verdura, più di un terzo del consumo di pollame, un quarto di quello dei suini”, dettagliava. I due terzi dei nostri animali dipendono attualmente dalla soia americana per nutrirsi in proteine. Certo, noi esportiamo attualmente più di quello che importiamo, ma “senza i vini e gli alcoolici, la Francia avrebbe un deficit commerciale agricolo di più di 6 miliardi di euro”, concludeva il parlamentare. Per il porta voce della Confédération contadina, Nicolas Girod, “questa crisi mette a dura prova le filiere che dipendono dai mercati all’esportazione e quelle specializzate. Appena c’è uno choc, si fa fatica a orientare di nuovo la macchina”. I produttori di latte – che vendono il  40% della loro produzione all’estero – sono stati così indeboliti rapidamente dalla diminuzione delle vendite. “Dato che non c’è autonomia,  è difficile adattarsi da un giorno all’altro”, precisa il sindacalista. “Per la carne bovina, gli agricoltori francesi si sono specializzati  nella nascita, continua. Si fanno nascere molti animali, che si esportano in altri paesi per l’ingrasso; poi si reimporta una parte di animali finiti”. Infine, nel reparto frutta e verdura, “abbiamo visto dipendere la nostra agricoltura da una mano d’opera precaria, sotto pagata”. Secondo lui, “l’offerta alimentare, la produzione, non è correlata alla domanda dei consumatori ma ai fabbisogni dell’industria agro alimentare”. Senza dimenticare che si “importa dell’azoto minerale, del fosfato per fertilizzare le colture, ricorda Arthur Grimonpont, cofondatore dei Greniers d’abondance. Il nostro sistema è anche largamente dipendente dal petrolio, per fare andare i camion che forniscono i supermercati”

…..

“I nostri territori sono degli Ehpad a cielo aperto, non sono autonomi e vivono di perfusioni alimentari ed energetiche”, deplora Stéphane LInou. Ora, i rischi causati da questa dipendenza alimentare non sono sufficientemente presi sul serio dalle autorità, avvisa: “In caso di un attacco cibernetico sulla catena di approvvigionamento o di una pandemia febbrile di livello 6 (L’epidemia attuale è classificata a livello 3 in Francia) con un isolamento totale dei trasporti, noi non abbiamo nessuna capacità locale per  farvi fronte, dice. C’è zero stock nelle collettività, zero stock da parte dello Stato, pochissime riserve nei magazzini, e nessuna capacità a produrre localmente.” Interrogando dei militari, degli specialisti della sicurezza interna, è arrivato a questa conclusione piuttosto tetra: “In caso di catastrofe, noi potremmo rapidamente avere delle sommosse  della fame in Francia. Bisogna integrare l’alimentazione nella legge di programmazione militare. Il fondiario agricolo, le fattorie, i contadini devono essere considerati  di importanza vitale.”

….

“Naturalmente il nostro sistema agricolo pone dei grossi problemi, perché sfrutta molto i lavoratori e distrugge gli ecosistemi e la nostra salute, continua Nicolas Bricas, ma una nuova ricollocazione non li risolverà certamente.” La coltura di frutta e verdura attorno alle città con grande utilizzo di pesticidi e di mano d’opera precaria può anche “essere presentata come una produzione locale”, illustra. Un’opinione condivisa da Aurélie Trouvé. “Lactalis, Avril sono delle imprese agro industriali francesi, rammenta. Se la nuova ricollocazione non è pensata in modo agro ecologico, potrebbe avvantaggiare i grandi gruppi.” Per questi due agro economisti, la ricerca dell’autonomia territoriale non deve prevalere sulla transizione verso più sostenibilità. Tanto più che sarà “difficile, anche impossibile, avere delle regioni totalmente autonome”, aggiunge Damien Roumet, della Fèdération Terre de Liens. Produrre vino in Bretagna non è ancora attuabile. “Bisogna provare a ricollocare quello che si può, e costruire delle solidarietà interterritoriali”, insiste. Come fare? Con altre organizzazioni –la Fnab, la rete Basic – Terre de liens ha creato Parcel, uno strumento  digitale che permette “di valutare per un determinato  territorio le superfici agricole necessarie per nutrire localmente, così come gli impieghi agricoli e gli effetti ecologici associati”. Per esempio, un ettaro di terra agricola coltivata biologicamente nella regione di Montpellier permette di nutrire due persone “flexitarie”, che consumano quindi poca carne.”

Liberamente tratto da: https://valentinamutti.wordpress.com/2020/06/01/f-e-se-il-coronavirus-aprisse-la-via-dellautonomia-alimentare/

Storie di agricoltura.