Non sono artificiali, sono semplicemente ricostruiti.

” Le persone oramai si sono abituate a quello che gli propina la grande distribuzione – ci
dice Sandro – quindi tutti i formaggi, io li chiamo artificiali, poi in realtà non è che sono artificiali, sono semplicemente ricostruiti.

Perché il latte ormai nelle grandi aziende non è più lavorato tal quale entra dentro. C’è un sistema di smembramento dove una parte va il lattosio, da un’altra parte va la panna, dall’altra parte va la proteina, dall’altra la caseina, poi dopo a seconda della ricetta che fanno, il computer ricostruisce il latte in maniera che sia consono per avere quel prodotto. Questo per dare un prodotto costante tutto l’anno.

Quindi i giovani che sono cresciuti con il galbanino, hanno una percezione del buono che non è reale, perché loro mangiano il galbanino. Se poi vengono a prendere da me un Fior di grotta che è uno stagionato sei mesi in grotta naturale, che è un prodotto eccezionale, magari lo buttano via. Cioè per loro il buono è il galbanino e non è il mio formaggio, che deriva da puro latte di animali che hanno pascolato tutta l’estate e poi stagionato in grotta naturale, senza neanche forzatura di aria meccanica.

Quindi? L’unica cosa è fare cultura, però è difficile, è veramente difficile. La cultura oramai è fuorviata da quello che i social media fanno credere che sia il buono. Ci sono tante aziende piccole che lavorano ancora bene. Però fanno tutte fatica, perché lavorare bene costa, perché abbiamo delle
spese che ovviamente la grande industria non ha. E quindi i piccoli sempre di più muoiono.

Il mio, il mio caso è un caso diverso, nel senso che io per anni ho lavorato nelle grandi aziende. Non per ultimo per la più grande azienda casearia mondiale che è la Lactalis. Però a un certo punto, quando guardavo in faccia i miei figli e vedevo che dovevano mangiare quei prodotti lì e ho detto, ma io non voglio che il mondo vada così e quindi mi sono creato il mio caseificio, partendo dagli errori della grande industria, cioè facendo l’esatto opposto di quello che fa la grande industria, perché so farlo, in quanto sono figlio e nipote di casari.

E poi cerco di spiegarlo, cerco di farlo capire, cerco di farlo vedere, far vedere dove effettivamente sono gli animali, che cosa mangiano, come vengono trattati: qualcuno lo capisce, tanti non lo capiscono e dicono che sì, va bene, ma quanto costa? Perché se tu vai al supermercato, trovi una Toma piemontese stagionata quattro mesi a € 8,90 e la gente ti dice ‘a me sembra uguale’. Ed è difficile, capisci?
Veramente difficile. Poi chi lo assaggia e ha un minimo di competenza lo capisce e torna.

Ma è difficile, è difficile farlo capire. Manca la cultura casearia, ma manca perché manca la cultura alimentare generale, perché nelle scuole manca questa istruzione. Ci sarebbe veramente bisogno di partire dalle scuole e fare come per l’educazione civica, come fanno educazione fisica, fare un’ora a settimana di educazione alimentare, capire che cosa è naturale e che cosa è ricostruito.

Allora lì sì che puoi fare la differenza, però stiamo parlando di ipotesi talmente irreali che non sono realizzabili. ”

Storie di agricoltura.